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Il tema di quest’anno era tratto dal  racconto di J. L. Borges, La casa di Asterione: «È vero che non esco di casa, ma è anche vero che le porte (il cui numero è infinito) restano aperte giorno e notte a uomini e animali. Entri chi vuole.»

Tema quanto mai attuale, quello del dentro e fuori, dell’aprire e limitare, del confinare e oltrepassare,   sottoposto alla riflessione degli studenti degli Istituti Superiori dell’Umbria e lasciato alla loro libera interpretazione, come spunto per la creazione di un elaborato.

Si riporta di seguito il testo della nostra studentessa, giudicato vincitore dalla Giuria del Concorso.

Cetriolini sott’olio

Finalmente l’era del terrore era finita. Lui fissava lo schermo, poco più corto del suo braccio, che mandava quelle tipiche onde di luce fredda e bianca, e ammirava piangendo di gioia e sollievo la piccola icona a forma di triangolo invertito, con tutte e quattro le tacche colorate di un candido bagliore. La connessione era tornata. L’uomo scoppiò a piangere, cercando di riprendersi, le lacrime luccicavano nella poca e unica luce del computer. Quei trentasette minuti lo avevano distrutto, era sull’orlo di un attacco di panico, la bocca carnosa e grassa si apriva a malapena, il respiro affannoso, gli occhi spalancati, a fissare quello schermo bianco, l’avviso che gli annunciava un’interruzione della connessione. Si poggiò la mano sul cuore, riprendendosi. Ora sospirava più piano, non schiamazzava più. Sorrise, con quella faccia simile a quella di un bambino, rimise la mano sul mouse. Nelle quattro ore più avanti si sentirono solo i piccoli clic dell’apparecchio e il respiro affannoso e rumoroso di lui, a causa del colesterolo. Ora aveva fame. Si alzò lentamente dalla sedia avviandosi nel buio verso i fornelli. Per lui non c’era problema, conosceva quel monolocale come le sue tasche, e poi al buio sembrava più grande. Casa sua era come un lungo corridoio, con tanti vicoli e ostacoli, per passare da una parte all’altra doveva scavalcare il letto. Ma gli piaceva quella specie di gioco, e ogni giorno gli piaceva alzarsi dalla sedia, oltrepassare il letto, scendere con il destro, mangiare, riandare al computer, salire sul letto, scendere con il sinistro. E ogni giorno, questa piccola routine si ripeteva, gli dava allegria, lo faceva sentire bene, ogni singolo giorno. Anche se non sapeva se lo poteva definire giorno. La luce del sole lo schifava, lo metteva in soggezione, e lui odiava sentirsi in soggezione. Non vedeva quasi mai la luce, da quando aveva smesso di uscire. L’ultima volta che aveva visto la luce era stato molto tempo prima. Aveva aperto per sbaglio una finestra, e un piccolo raggio di luce era entrato nella stanza buia, raggiungendo il pavimento. Lui era stato lì per ore, a osservare quella luce gialla entrare nel suo antro buio, l’aveva ammirata, leggera e sottile, e aveva ammirato meravigliato la polvere, che ora splendeva di luce calda, che danzava nell’aria, lo ipnotizzava. Era fermo lì, seduto a terra, immobile, concentrato e completamente assente, quasi staccato dal proprio corpo, osservava la luce. Finché la luce non scomparve, insieme alla calda e antica danza dei granelli. Chiuse subito la finestra. Scacciò quel ricordo, salì sul letto, scese con il destro. Raggiunse i cassetti, guardò i fornelli. Immacolati, perfettamente puliti. Sbuffò, un grugnito mischiato a un gemito. Non gli era mai piaciuto cucinare. E a dirla tutta non gli piaceva neanche mangiare. Lo considerava solo una maniera per passare il tempo. Alla fine trovava sempre un modo per passare il tempo. Era stato sempre solo, dopotutto. Ma gli piaceva. Questo pensava mentre addentava la tavoletta di cioccolata. “Non ho bisogno degli altri. Non mi capiscono, non sono in grado. Sono così stupidi che se avessi davvero bisogno di loro non verrebbero. Che idioti”. Grugniva più arrabbiato, i passi pesanti facevano tremare le mattonelle. “Se lo volessi, sarei miglia più in alto di loro. Sarei insuperabile, invincibile”. Salì sul letto, scese con il sinistro. “Ma sono troppo gentile. Sono misericordioso. Con le mie capacità, è sbagliato fare del male”. Si compiacque di quella affermazione, si crogiolò nel suo delirio. Ricominciò a giocare. Ma alcuni pensieri non gli lasciavano la testa. Pensieri e ricordi. Non aveva molti ricordi, o meglio, non molti ricordi diversi. Ripetitivi forse. Si ricordava poco al di fuori del computer, del corridoio, del letto del piede destro, di quello sinistro.
Gli venne in mente sua madre.
Masticava a bocca aperta mentre pensava a lei. Pensò a come lo guardasse, a come lo ignorasse. A come aveva cominciato a non parlargli più. A come aveva cominciato a dire alle amiche che era morto. A come cercasse di nasconderlo, di non considerarlo più suo figlio. L’unico rapporto con lui era il pacco di prodotti precotti che gli lasciava davanti alla porta ogni mese, solo per non farlo morire, per evitare lo sforzo e il tempo di organizzare e pagare un funerale. Lui guardava la scatola e piangeva. Piangeva disperato, non perché sua madre lo odiava, ma perché quella puttana continuava a portargli quei cazzo di cetriolini sott’olio, e lui odiava i cetriolini. Li toglieva sempre dall’hamburger, durante la pausa pranzo, quando usciva ancora, quando aveva una casa ed una famiglia. Li toglieva e li buttava via, perché “nessuno fa i cetriolini come a New York”, e i suoi colleghi lo guardavano, occhiate cattiva, di scherno, e sorridevano con quei denti da lupo, bianchissimi, pronti a squartare la carne. E poi sua moglie, ah, lei odiava quella frase, odiava come la metteva in imbarazzo cercando di essere divertente, come tutti le ridessero in faccia perché aveva sposato uno del genere, odiava lui. E lui odiava tutti perché non riusciva a salire sul metrò senza essere deriso, sommessamente, a come tutti lo trattassero come una bestia da circo, lui, con quella bocca carnosa e unta, gli occhi piccoli, lo stupido pizzetto. Odiava come nessuno lo amasse, e come lui non riuscisse ad amare nessuno, odiava quella solitudine affollata, la stanchezza di doversi sempre proteggere. Lui voleva solo dormire. Si fermò improvvisamente. Aveva ancora un pezzo di cioccolata sulla lingua, lo ingoiò. “Sono così stanco ”, pensava. Lo pensava sempre. Appena si distraeva, appena non aveva più nulla da fare e tornava anche solo un secondo di completo silenzio, il suo cervello si ripeteva, creava uno sgradevole e fastidioso vocio che gridava sussurrando “sono così stanco”. La sua vita era un continuo “sono così stanco”. Ed era stanco di essere stanco. Voleva solo dormire, abbandonarsi all’inedia. Ma voleva anche essere importante. Oh, quante ambizioni, mai realizzate! Quante volte sua madre gli aveva detto che non sarebbe stato nulla, solo un pigro bastardo? Quante volte, da bambino,gli aveva riso in faccia dopo una qualsiasi dimostrazione di affetto? Quante volte… Abbassò lo sguardo verso lo scatolone aperto da poco. “Voglio solo dormire… ”. Preso il barattolo, lo svitò. “Dormire per sempre…”. Prese il piccolo affarino verde. “Sempre”. Lo avvicinò al viso. “Ma non oggi”. Addentò il cetriolino.

 

di Morgana Burli

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